Il centro vitale della comunità è l’Eucaristia celebrata ogni mattina e adorata giorno e notte. Da questo mistero, presenza perenne e dinamica della Pasqua di Gesù, si irradia la vita quotidiana e la preghiera liturgica delle Ore che scandisce la giornata.
In essa, come nell’adorazione, si raccoglie la lode e la supplica di tutta l’umanità.
La comunità vive secondo il progetto elaborato da San Benedetto fin dal secolo VI: preghiera, lectio divina, lavoro.
L’atmosfera di silenzio alimenta la ricerca di Dio.
L’impegno ascetico individuale e comunitario si verifica nella prassi dell’obbedienza che “è propria di coloro che ritengono di non avere nulla di più caro di Cristo” (RB 5,2).
Un ruolo importante è attribuito al lavoro quotidiano che San Benedetto non considera un elemento accessorio, ma necessario per formare la persona umana e cristiana: “Allora sono veri monaci quando vivono del lavoro delle loro mani, come fecero i nostri padri e gli apostoli” (RB 48,8). Lavorando la comunità si procura i mezzi necessari per il sostentamento e si fa solidale con gli uomini e le donne del nostro tempo.
Il monastero è prima di tutto il luogo dell’incontro con Dio, dove Dio sta veramente al centro, come punto di partenza e di riferimento per tutto e per tutti in ogni momento. S. Benedetto è stato per primo, e così pure concepisce l’aspirante che bussa alla porta per entrare nella sua comunità, come uno che “cerca veramente Dio” (Regula Benedicti, cap.58), anche se più profondamente fa capire che ciò non potrebbe avvenire se Dio non ci avesse cercato per primo nel suo amore gratuito (cfr RB. PROL). Per questo, l’atteggiamento di base che è richiesto al monaco è quello dell’ ascolto, come annuncia solennemente la prima parola della Regola (“Ascolta, o figlio”…, PROL.), ma poi esso risuona sotto varie forme in ogni capitolo che mostra di voler trarre il suo insegnamento da una parola di Dio, e alla fine viene riaffermato come precisa intenzionalità nel capitolo conclusivo (RB, 73).
Questo spiega perché S. Benedetto concepisce il recinto del monastero, compresa la vita della comunità e del singolo, tutto fasciato di silenzio (RB, 6.48.52), di solitudine, di separazione dal mondo, per favorire al massimo questo ascolto intenso e questo colloquio ininterrotto con Dio. Alcune ore del giorno, e tra le più preziose (cfr RB 48), sono dedicate espressamente alla lectio divina , cioè alla lettura sia personale che comunitaria della Parola di Dio, ma praticamente questa accompagna tutta la giornata del monaco sia in coro, sia in refettorio (“alla mensa dei fratelli non deve mai mancare il nutrimento della lettura…” RB 38), sia durante il lavoro, perché la Parola deve essere meditata (o ruminata – assimilata interiormente) da ciascuno per fiorire poi in preghiera-colloquio personale con Dio, fino alla vetta della contemplazione, se la grazia di Dio trova un’anima attenta e generosa. La lectio divina però si completa, anzi trova il suo culmine in quello che viene chiamato l’Opus Dei per eccellenza (liturgia delle ore) che scandisce tutto il corso della giornata e della notte, dove la parola di Dio non solo viene ascoltata, ma celebrata, cantata in unione con il coro dei fratelli, “davanti a Dio e ai suoi angeli” (RB 19). Attraverso la meditazione assidua della Parola di Dio, la celebrazione dell’Opus Dei nelle diverse ore del giorno e nei vari tempi dell’anno liturgico, il monaco viene introdotto sempre più nell’unica storia salvifica e si sente parte viva nel grande mistero di Cristo che sta attuandosi di giorno in giorno in noi, nella Chiesa, nel mondo.
Il culmine e la sintesi di tutto questo si vive nell’Eucaristia: Mistero che si celebra sull’altare. S. Benedetto infatti vede la donazione totale di sé, che il monaco fa nella professione (col triplice suscipe me domine, secundum eloquium tuum…, cantato davanti all’altare e alla comunità dei fratelli, “piccola Chiesa”), inclusa nell’offerta di Cristo, e per questo perfino la scheda di professione viene sottoscritta e deposta sulla mensa dell’altare (RB 58.59). Non si esce quindi dalla normale esistenza cristiana col carisma monastico, ma ci si radica più in profondità nella realtà battesimale-eucaristica, cioè nel mistero di Cristo morto e risorto.
La lectio divina che scava dentro, con l'impegno dell'ascolto e della ruminazione personale lungo tutta la giornata, l’Opus Dei che risuona coralmente nell'arco del giorno e dell'Anno liturgico per dispiegare tutte le ricchezze del Mistero di Cristo, l'Eucaristia, sia pure più rara ai tempi di S. Benedetto, ma intrecciata con l'atto stesso di nascita della vita benedettina (II Dialoghi, 37): ecco l'atmosfera in cui viene immerso il monaco «cercatore di Dio».
Si tratta di una spiritualità cristocentrica, perché Cristo è il perno attorno a cui tutto ruota, a cui «nulla mai si deve anteporre» (RB, 4. 72), di cui «nulla si stima più caro» (cfr RB, 5), avendolo scelto come Re, guida, maestro, modello supremo in tutto (Prol., 5. 7, ecc...). Quando si è entrati decisamente nella sua sequela, Egli muove e rende possibile tutto. Il monaco allora che ha sempre «gli occhi spalancati verso la luce che viene da Dio e gli orecchi tesi a ogni sua chiamata» (cfr Prol.), si educa non solo a leggere e interpretare i testi e fatti antichi delle Scritture, ma impara a leggere se stesso, gli avvenimenti della sua vita e della comunità che lo circonda, le vicende della Chiesa e del mondo, «i segni dei tempi» insomma, in questa luce superiore, dal punto di vista di Dio e dei veri interessi del Regno. La lunga familiarità acquisita col pensiero di Dio presente nella sua Parola e nel suo grande disegno di amore che abbraccia ogni evento e ogni persona, fornisce la chiave nuova di lettura di tutta la realtà e questo vuol dire profezia, dono eminente, messo in forte luce da S. Gregorio M. nella vita del santo Patriarca, ma partecipato anche da ogni suo vero discepolo.
Dopo aver fatto poi una chiara scelta in favore della fortissima stirpe dei cenobiti che vivono insieme sotto una Regola e un Abate, e insieme apprendono gli uni dagli altri «l'arte spirituale» (cfr RB, 4) che comporta notevoli prove, combattimenti e forza d'animo per perseverare fino alla fine, da quel momento si vive in un regime di scambio completo.
Il monaco benedettino non si sente donato a Dio soltanto, ma sa di non poter raggiungere in maniera autentica quella unione, se non accogliendo il dono e facendosi dono a tutti i membri della comunità fraterna, inclusa la paternità dell'Abate.
La grande norma di comportamento che regola ora tutti i rapporti fraterni, è espressa da un insistente: sibi invicem e sub caritate, cioè l'aprirsi nell'amore e il rapportarsi costantemente molto più agli altri che a se stessi e al proprio giudizio, comodo o tornaconto.
Una casa così «sapientemente ordinata» (cfr RB, 53), dove «nessuno dovrebbe sentirsi turbato o rattristato» (RB, 31. 48), anzi dove ognuno si sente accolto, ascoltato, valorizzato, sostenuto da tutti purché faccia altrettanto verso i suoi fratelli, non è solo una «casa di Dio» (RB, 31. 53. 64), ma anche una «casa dell'uomo», dove sino in fondo e a ogni riga si può dire si rivela l'umanesimo benedettino.
Su tutto domina e fa legge la infirmitatum consideratio, cioè al centro - ante omnia et super omnia, come enuncia la Regola - stanno i deboli, gli infermi, i bisognosi, i poveri, i vecchi, i bambini (cfr RB, 34. 36. 37. 53. 55). Tutta la comunità, dall'Abate all'ultimo membro, è impegnata e mobilitata nell'attenzione e nella cura premurosa verso chi ha più bisogno, anche nel caso se ne sentisse il peso e il fastidio (RB, 36).
La giornata del monaco infatti secondo la RB (cfr spec. c. 48) viene divisa quasi pariteticamente fra lectio divina, Opus Dei e labor manuum in un'alternanza sapiente, ben regolata e dosata.
Il Santo ammonisce qui di non rattristarsi per questo, ma anzi di ricordare che «allora sono veri monaci quando vivono col lavoro delle loro mani, come i nostri padri e gli Apostoli, però (e qui fa capolino l'abituale discretio) tutto si faccia con moderazione, per riguardo ai più deboli» (cfr RB 48).
Il Padre del monachesimo occidentale è convinto che senza un serio impegno di lavoro, non si costruisce né la comunità, né l'uomo, né il vero «spirituale» quale dovrebbe essere il monaco.
Già da quanto detto finora risulta chiaro che il Monastero fondato da S. Benedetto non è un piccolo mondo chiuso e ripiegato su se stesso, ignaro o indifferente a ciò che gli sta intorno. Certo nel suo punto di partenza esso suppone normalmente un esodo, cioè un'uscita separazione dal mondo, custodita poi gelosamente non come un rifugio egoistico o come una fuga paurosa, bensì come una barriera eretta contro la mondanità e la dissipazione. E' l'antitesi cioè della faciloneria e del lasciarsi andare seguendo la corrente: atto di forza quindi e di coraggio, di chi sa tener duro con l'occhio fisso alle cose vere ed essenziali e senza voltarsi indietro.
(Introduzione di P.D. PELAGIO VISENTIN osb, a "San Benedetto, un maestro di tutti i tempi - Dialoghi e Regola", Collana Scritti Monastici, edizioni Messaggero di Padova, Abbazia di Praglia, 1981, pg. 11-27)
Le caratteristiche particolari che ci vengono dal carisma di Madre Mectilde de Bar sono due: l’adorazione perpetua e la riparazione.
ADORAZIONE: l’intuizione di Madre Mectilde si fonda sul senso di grande stupore e meraviglia nel vedere l’amore di Dio. Egli non solo ha voluto salvare l’uomo con l’Incarnazione e la donazione di sé fino alla morte di croce, ma ha escogitato un mezzo per continuare tutto questo nel tempo. L’Eucaristia, infatti, è la possibilità di incontro con la Pasqua di Gesù offerta a tutti i tempi e agli uomini di ogni tempo. Per rispondere a questo amore così incomprensibile, il meno che si possa fare, per la Madre, è buttare la propria vita in un gesto che sia altrettanto gratuito e pieno d’amore. Ecco l’idea di imitare la perennità dell’amore di Cristo, con la perpetuità dell’adorazione: giorno e notte Cristo resta con noi e giorno e notte noi vogliamo essere presenti alla sua presenza, per riconoscere che solo da lì, da quel suo amore che si dona continuamente, sgorga la vita. Però l’adorazione perpetua non è costituita solo dalle ore che si passano davanti al tabernacolo. Quelle sono il via per un’organizzazione della giornata che sia tutta una continuazione della celebrazione eucaristica. In ogni attività bisogna portare lo spirito di adorazione, lo spirito di donazione gratuita che l’Eucaristia insegna. Perciò, ad ogni ora chi è in chiesa ad adorare, suona cinque colpi di campana e, in qualunque luogo ci si trovi si sospende quel che si sta facendo e ci si mette in contatto con un momento di preghiera, con Cristo che, nell’Eucaristia, continua a offrire la propria vita per la vita del mondo.
RIPARAZIONE: La Madre però vede che questo amore appassionato di Dio è spesso rifiutato e l’Eucaristia, sacramento di quest’amore, è da molti ignorata, disprezzata ed anche profanata. Ella comprende che il peccato, la pretesa di auto-realizzazione dell’uomo, è il male più grande per l’umanità. Dio non può togliere all’uomo la libertà che Egli stesso gli ha dato. Non gli resta che farsi schiavo per amore dell’uomo e continuare ad amare l’uomo anche nel suo rifiuto. La solidarietà con l’uomo peccatore porta Cristo fin nel punto di sentirsi abbandonato dal Padre, così da condividere gli effetti di quella morte che è la più dolorosa per l’uomo cioè la morte spirituale. La riparazione dice appunto la nostra disponibilità a condividere con Cristo la sua vita pasquale, cioè il suo amarci “fino alla fine” “fino in fondo”, fino ad accettare la morte perché l’uomo abbia la vera vita; fino ad accettare il buio perché gli uomini abbiano la luce della grazia, fino ad essere il rifiuto di tutti affinché gli uomini possano accogliere l’amore del Padre. Questo avviene per noi quando accettiamo di fare la verità in noi stessi e quando accettiamo che lo Spirito tagli, in noi per primi, le radici del male, ma non per un’operazione di abbellimento spirituale personale, ma in solidarietà, sapendo di trovarci, davanti a Dio, non soli, ma con accanto chi non crede, chi non sa perdonare, chi ha l’odio e il rancore che rodono dentro come un cancro …. In una sola frase si potrebbe dire che la riparazione ha come sottofondo le parole di S. Paolo: “vorrei essere io stesso anatema, separato da Cristo, a vantaggio dei miei fratelli”. Praticamente, l’adorazione perpetua e la riparazione sono l’esplicazione dei “due sguardi” di Gesù. Mectilde de Bar dice che Gesù nell’Eucaristia è sempre rivolto al Padre per glorificarlo ed è, contemporaneamente, sempre rivolto all’uomo peccatore per salvarlo. Il carisma eucaristico è dunque una continua conformazione a questi due atteggiamenti di Gesù. Questa non è comunque un’aggiunta a tutto quanto l’essere monache benedettine comporta: l’adorazione perpetua è un modo di vivere quell’unificazione in Dio che il monachesimo propone e la riparazione si inserisce nel voto di conversione e nel grande impegno della lotta spirituale che ha sempre accompagnato il monaco.
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